CFC e libertà di stabilimento tra normativa italiana e garanzie europee
Il rapporto tra la disciplina CFC e la libertà di stabilimento è un tema nient’affatto risolto alla luce dei “trend” europei. La sentenza della Corte di cassazione n. 25281/2015, con la quale si afferma la compatibilità della disciplina dell’art. 167, comma 1, del T.U.I.R. - applicabile esclusivamente ai Paesi a fiscalità privilegiata - con il principio comunitario di libertà di stabilimento offre lo spunto per un’analisi del rapporto tra la disciplina nazionale sulle CFC e la giurisprudenza europea in punto di libertà di stabilimento, anche considerando il contenuto della recente Direttiva UE antiabuso.
Nel caso deciso dalla Corte di cassazione con la sentenza del 16 dicembre 2015, n. 25281, una società proponeva interpello all’Amministrazione finanziaria per la disapplicazione della normativa CFC per una controllata avente sede a Cipro. Segnatamente, chiedeva che non si applicasse al caso di specie l’art. 167, comma 1, del T.U.I.R., norma di riferimento in quanto, nel periodo d’imposta interessato, Cipro figurava ancora tra i Paesi inclusi nella black list. A seguito di risposta negativa, la società istante adiva la giustizia tributaria, che sia in primo che in secondo grado si pronunciava in senso ad essa sfavorevole. La società ricorreva dunque in Cassazione sostenendo che l’applicazione del regime di cui all’art. 167, comma 1, del T.U.I.R. ad una società controllata cipriota comportasse la violazione del principio di libertà di stabilimento, in quanto imponeva ad una società stabilita in un Paese ormai parte dell’UE il più sfavorevole regime probatorio previsto per i soggetti localizzati in Paesi a fiscalità privilegiata. La ricorrente chiedeva alla Suprema Corte - in subordine all’accoglimento del ricorso - la sottoposizione di questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’UE per incompatibilità della norma nazionale con il diritto dell’Unione Europea.
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