Art. 21: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero"... ma non esageriamo!
Poche settimane fa la corte di Appello di Milano, con sentenza pubblicata il 20 maggio 2019, ha confermato quanto già statuito nel merito dal giudice di primo grado (Trib. Milano, 6 luglio 2017) che aveva ritenuto Vittorio Sgarbi responsabile dei reati di ingiuria e di diffamazione nei confronti del critico Sebastiano Grasso, aumentando peraltro l’ammontare del risarcimento del danno in modo considerevole (da 1.000 a 24.000 euro).
Tutto iniziò nel 2011 quando Sgarbi fu chiamato a curare il Padiglione Italia della 54° Biennale di Venezia, battezzandolo L’arte non è cosa nostra. Un titolo programmatico che nel suo stile voleva essere una polemica verso la “mafia dell’arte” in cui secondo il critico ferrarese i curatori e i critici “indipendenti” spadroneggiano, facendo emergere solo gli artisti da loro “protetti”. E così Sgarbi decise di far selezionare gli artisti che avrebbero partecipato non da parte di addetti ai lavori, ma da personalità del mondo della cultura e dello spettacolo, da Claudio Magris a Stefano Zecchi, da Vladimir Luxuria a Elio Fiorucci.
Ne uscì un Padiglione Italia – lo si ricorderà – fortemente criticato, definito “sgangherato e pleonastico” da Renato Barilli o “strampalato” da Sebastiano Grasso, in un articolo apparso il 5 giugno 2011 sul Corriere della Sera dal titolo Padiglione Sgarbi: esempio di una vicenda molto di famiglia. In questo articolo in particolare Grasso metteva in luce come dal suo punto di vista le scelte di Sgarbi fossero dettate (o avessero avuto come conseguenza) in realtà proprio quello che lo stesso si era promesso di combattere: vale a dire il clientelismo e l’opportunismo nella scelta degli artisti.
Apriti cielo! Sgarbi queste ultime critiche non le digerì e tra giugno e agosto di quell’anno inviò a Grasso una gragnuola di SMS “di contenuto evidentemente offensivo” e “lesivo della dignità e del decoro” del destinatario. Il 13 giugno 2011 Sgarbi pubblicava inoltre su Il Giornale l’articolo Il nuovo Caravaggio. Una bufala domenicale, in cui criticava l’inserto culturale del Sole 24Ore per aver “sparato” uno scoop del tutto inattendibile, cioè il ritrovamento in Spagna di un dipinto del Merisi la cui attribuzione sarebbe stata più che azzardata.
Con l’occasione, Sgarbi decideva così di togliersi il sassolino dalla scarpa. Dopo aver definito Grasso un “sedicente poeta” affermava che lo stesso negli anni in cui era stato responsabile della pagina culturale del Corriere della Sera “ne aveva fatto una riserva di favori e dispetti tanto da mortificarla in una dimensione provinciale e senza alcun respiro culturale”. Proseguiva inoltre affermando di aver letto il giorno prima “un sereno e lusinghiero articolo del grande Gillo Dorfles sul Corriere che [aveva] il pregio di restituire parola a un critico saggio ed esperto, mortificando i pappataci alla Grasso”.
Fino a che punto un critico (d’arte, letterario, musicale, teatrale, etc. etc. etc.)/giornalista può spingersi nelle sue valutazioni nei confronti dell’operato altrui?
L’art. 21 della nostra Costituzione afferma che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Il diritto di libera manifestazione del pensiero comprende sia quello di cronaca sia quello di critica.
Quest’ultimo, a differenza del primo, mira “non già a informare” quanto a “fornire giudizi e valutazioni personali” e, sempre a differenza di quello di cronaca, che è “rivolto a trasmettere informazioni concernenti fatti di pubblico interesse” ed è “ancorato alla più rigorosa obiettività”, si esprime in un “giudizio avente carattere necessariamente soggettivo rispetto ai fatti”.
Il diritto di critica si fonda quindi su un criterio soggettivo e incontra limiti meno stringenti rispetto a quello di cronaca, che richiede che la notizia 1) poggi su basi veritiere, 2) rivesta un interesse pubblico e 3) rispetti il principio c.d. della “continenza”, intesa come correttezza della modalità di espressione, che non deve essere infamanti e inutilmente umiliante.
Nel diritto di critica – basato sulla soggettività – il principio di verità è infatti più sfumato e “limitato alla oggettiva esistenza di dati assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse” mentre quello di continenza “è assai meno rigido”. Infatti, “posto che qualunque critica che concerna persone è idonea a incidere in qualche modo in senso negativo sulla reputazione di qualcuno, escludere il diritto di critica ogniqualvolta leda, sia pure in modo minimo, la reputazione di taluno significherebbe negare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. Sostenere una tesi diversa significherebbe affermare che nel nostro ordinamento giuridico è previsto e tutelato il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero solo ed esclusivamente nel caso che questo consista in approvazioni e non in critiche”. Pertanto, afferma la giurisprudenza, “il diritto di critica può essere esercitato utilizzando espressioni di qualsiasi tipo anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato”.
Se dunque il diritto di critica è esercitato secondo i limiti appena visti, esso funge da scriminante (exart. 51 c.p.) nei confronti del reato di diffamazione che punisce la condotta di chi “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione” (art. 595 c.p.). Compito del giudice è dunque quello di operare un bilanciamento di interessi: quello alla reputazione individuale da un lato e quello alla libera manifestazione del pensiero dall’altro.
Applicando questi principi, il Tribunale di Milano ha ritenuto lecito l’epiteto di “sedicente poeta” attribuito da Sgarbi a Grasso, così come espressione di un legittimo diritto di critica la parte dell’articolo in cui veniva detto che la pagina dell’arte del Corriere della Sera era stata ridotta sotto la guida di Grasso a “una dimensione provinciale e senza alcun respiro culturale”. Viceversa, la Corte ha ritenuto diffamatoria la parte in cui Grasso veniva accusato di aver reso la pagina dell’arte “una riserva di favori e dispetti”, dal momento che ingenera nel lettore l’impressione che la stessa fosse stata organizzata secondo meccanismi clientelari. Diffamatoria è stata pure ritenuta la parte di articolo apparso su Il Giornale in cui si parlava di mortificazione dei “pappataci alla Grasso”.
Questo caso ci fornisce l’occasione per compiere un brevissimo excursus sulle pronunce in tema di diritto di critica/diffamazione di opere intellettuali che, in realtà, per quanto a mia conoscenza non sono molte.
Per quanto risalente, come dicono i giuristi, e non di una corte italiana, va di certo ricordata la vertenza che coinvolse nel 1878 il pittore statunitense James Whistler e il critico d’arte britannico John Ruskin, chiamato in giudizio dal primo per rispondere del reato di diffamazione. Ruskin aveva infatti pesantemente stroncato i lavori di Whistler esposti nel 1877 alla Grosvenor Gallery, fondata nello stesso anno da Sir Coutts Lindsay per accogliere gli artisti rifiutati dalla Royal Academy. Poco dopo l’inaugurazione della mostra infatti, commentando l’opera Nocturne in black and gold: the falling rocket, il cattedratico di Oxford scrisse un breve articolo in cui si leggeva che ““Per il bene di Mr. Whistler non meno che per la protezione dell’acquirente, Sir Coutts Linsday non avrebbe dovuto ammettere in galleria opere nelle quali la mal educata presunzione dell’artista costeggia così da presso l’aspetto di una deliberata impostura. Prima di adesso ho visto e sentito tanta di quella impudenza cockney, ma non mi sarei mai aspettato che un buffone chiedesse duecento ghinee per sbattere un barattolo di vernice in faccia al pubblico”. Whistler, chiaramente infuriato per il danno alla reputazione che il più influente critico del tempo gli aveva arrecato con queste dichiarazioni, chiese un risarcimento di 1.000 sterline, più le spese processuali. L’artista vinse la causa, ma ottenne solo un risarcimento simbolico di un nichelino (1/4 di penny) e per giunta andò in bancarotta a seguito delle spese processuali sostenute. Tuttavia, come si dice, non tutto il male viene per nuocere: la Fine Art Society di Londra, una società per la vendita e l’editoria di stampe, invitò Whistler a recarsi a Venezia, dove l’irrequieto artista realizzò una serie di acqueforti che ritraggano una Venezia minore e decadente, di grande fascino.
Venendo alla nostra giurisprudenza e a casi più recenti, in materia di diritto di critica di opere intellettuali ricordo la sentenza n. 19178 del 2014 della Cassazione che ha confermato i giudici di merito che avevano ritenuto lecito un passo in cui un critico letterario recensiva un romanzo definendolo tra l’altro “campione di comicità, seppure involontaria” e affermando che sarebbe diventato presto “oggetto di culto per gli estimatori del kitsch”. Secondo la Corte infatti “la critica negativa dell’opera altrui non è di per sé offensiva quando socialmente rilevante, perché l’argomentata espressione di dissenso rispetto all’opera intellettuale, diffusa e di interesse pubblico, non comporta lesione della altrui reputazione; per contro, la critica rileva non come criterio di accertamento della sussistenza dell’offesa ma come scriminante, allorché si sostanzi anche in valutazioni negative circa le qualità e il rilievo letterario dell’opera intellettuale e del suo stesso autore, sempre che esse siano indispensabili per l’esercizio del diritto costituzionalmente garantito alla manifestazione del pensiero e non si risolvano, invece, nell’adozione di espressioni ‘gratuite’, inutilmente volgari, umilianti o dileggianti, non necessarie all’esercizio di tale diritto”.
Ancora, il Tribunale di Roma (23 settembre 1991) ha parimenti ritenuto lecito un articolo di critica teatrale in cui venivano utilizzate espressioni quali “banalità di una storia”, “incapacità di padroneggiare una materia tanto convenzionale”, “testo inerte”, “quintessenza della banalità da fumetto”. Secondo la Corte infatti “in una società democratica, improntata alla libertà di manifestazione del pensiero e di stampa, va riconosciuto il diritto di libera formazione ed espressione delle opinioni, conseguentemente possono i critici valutare negativamente nelle recensioni le opere altrui. È configurabile, pertanto, il legittimo esercizio del diritto di critica nella valutazione negativa di un’opera teatrale, e con essa, inevitabilmente, del suo autore, purché giudicato in quanto tale e non in quanto uomo”.
Come a dire: sull’opera si può dire tutto, sul suo autore state invece attenti!
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