La riforma fiscale americana agita le acque del dibattito sulla fiscalità internazionale
Il dogma della negatività della concorrenza fiscale internazionale, che sembrava dominante, è messo in crisi dalla nuova politica del leader indiscusso dell’economia mondiale. E già si annuncia una spettacolare race to the bottom.
Le conseguenze? Una selvaggia riduzione delle tutele welfariane?
Non è detto.
Certo, bisognerà ripensare al modello tassa e spendi, in specie dove lo spendi sta per il buttare denaro in sistemi sociali inefficienti e deresponsabilzzanti – avete presente gli stuoli di usceri ai ministeri romani? - e non a supporto delle fasce realmente deboli e svantaggiate. L’esperienza della devolution dal centro alla periferia di servizi pubblici, ad esempio in materia di sanità, ha dimostrato almeno con riguardo alle regioni del Centro Nord, che si può spendere meno e meglio.
E poi potremo finalmente verificare se è vero che lasciare nelle tasche delle imprese più denaro produce più ricchezza, e quindi ultimamente più gettito, che non inserirle nell'inefficiente circuito dell’intermediazione politica. D’altra parte, lo stesso Ocse, che non si può certo definire una istituzione ultra liberista, nel suo paper Tax and Economic Growth afferma che l’imposta sulle società è la più anti crescita che ci sia (“the most detrimental to economic growth”).
Vediamo dunque se ha ragione Trump a scommettere che quel che si perde in tax rate lo si riguadagnerà in gettito. Se fosse come dice lui avremmo uno spettacolare precedente contro i profeti dell’imposizione o il diluvio finanziario.
Buono spettacolo a tutti!