Diritto del lavoro

Il licenziamento del Dirigente d’azienda

Le peculiarità del rapporto dirigenziale si riflettono anche in uno dei momenti maggiormente delicati di un rapporto di lavoro, quale è il licenziamento. In particolare, occorre distinguere tra giusta causa, giustificato motivo e giustificatezza.


Il Dirigente: natura del rapporto di lavoro


L’art. 2095 del Codice Civile individua quattro categorie di prestatori di lavoro – Dirigenti, quadri, impiegati e operai – ma non ne descrive le caratteristiche, tratteggiate, invece, dai contratti collettivi (oltre che dalla giurisprudenza).


L’art. 1 del CCNL per i Dirigenti di aziende produttrici di beni servizi (id est, Dirigenti industria), ad esempio, così recita: «sono Dirigenti i prestatori di lavoro per i quali sussistano le condizioni di subordinazione di cui all'art. 2094 del cod. civ. e che ricoprono nell'azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell'impresa.


Rientrano sotto tale definizione, ad esempio, i direttori, i condirettori, coloro che sono posti con ampi poteri direttivi a capo di importanti servizi o uffici, gli institori ed i procuratori ai quali la procura conferisca in modo continuativo poteri di rappresentanza e di decisione per tutta o per una notevole parte dell'azienda
».


Il CCNL Dirigenti delle aziende del terziario della distribuzione e dei servizi, analogamente, descrive i Dirigenti come segue: «sono Dirigenti a norma dell'art. 2094 c.c., ed agli effetti del presente contratto, coloro che, rispondendo direttamente all'imprenditore o ad altro Dirigente a ciò espressamente delegato, svolgono funzioni aziendali di elevato grado di professionalità, con ampia autonomia e discrezionalità e iniziativa e col potere di imprimere direttive a tutta l'impresa o ad una sua parte autonoma.


La qualifica di Dirigente comporta la partecipazione e la collaborazione, con la responsabilità inerente al proprio ruolo, all'attività diretta a conseguire l'interesse dell'impresa ed il fine della sua utilità sociale
».


I Dirigenti, quindi, sono gerarchicamente sovraordinati sia tra loro (a seconda, ovviamente, delle mansioni svolte e dei ruoli assegnati) sia a tutti gli altri lavoratori subordinati e, come è noto, il loro rapporto di lavoro è caratterizzato da un profondo quanto necessario vincolo fiduciario con il Datore di lavoro. 


Il venir meno della fiducia del Datore di lavoro: il licenziamento
 


Proprio la necessaria sussistenza di questo vincolo fiduciario comporta in alcune ipotesi di recesso importanti riflessi nel momento in cui il rapporto di lavoro tra Dirigente e azienda cessi non per risoluzione consensuale, bensì per dimissioni o licenziamento.Il Legislatore ha escluso – salvo le eccezioni di cui diremo – i Dirigenti dall’ambito di applicazione della legge sui licenziamenti individuali (art. 10, L. 604/66, dichiarato costituzionalmente legittimo con sentenza della Corte Costituzionale 6 Luglio 1972, n. 121), così che il loro rapporto di lavoro non gode né della tutela reale, né di quella obbligatoria, risultando in questo modo assoggettato al regime di libera recedibilità, con applicazione degli artt. 2118 (recesso con preavviso) e 2119 (recesso per giusta causa, senza preavviso) del Codice Civile.

Vero è, tuttavia, che da tempo quasi tutti i contratti collettivi prevedono uno specifico limite al potere di recesso del Datore di lavoro, che è quello di giustificare il licenziamento: tant’è che in assenza di “giustificatezza” del recesso sorge a favore del Dirigente il diritto alla corresponsione di un’indennità supplementare, che è istituto di natura squisitamente pattizia.Sussistono, poi, a favore dei Dirigenti altre due tutele (al pari di tutti gli altri lavoratori subordinati): la prima, è quella dell’obbligo della forma scritta del licenziamento (art. 2, L. 604/66; il licenziamento verbale, infatti, è inefficace); la seconda è quella della reintegrazione nel posto di lavoro in ipotesi di licenziamento discriminatorio (art. 3, L. 108/90), nullo [ad esempio, perché irrogato in concomitanza col matrimonio (art. 35, D.Lgs. 198/2006), o in violazione delle norme a tutela della maternità o della paternità (art. 54, commi 1, 6, 7 e 9 del D.Lgs. 151/01), o basato su motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 del Codice Civile].


Soffermiamoci, ora, sulle singole ipotesi di recesso, vale a dire disciplinare, per giusta causa ovvero motivato da giustificatezza.Il licenziamento disciplinare – che rientra nell’area ben più ampia del licenziamento per giusta causa – in passato ha comportato un acceso dibattito giurisprudenziale in relazione all’applicabilità o meno al Dirigente delle garanzie procedimentali previste dall’art. 7 della L. 300/70 (cd. “Statuto dei Lavoratori”).Ma risulta poco utile in questa sede ricordare siffatto dibattito (che si è sviluppato, in particolare, sulla distinzione tra Dirigenti “apicali”, “convenzionali” e “pseudo-Dirigenti”), poiché, da ultimo, le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione hanno stabilito che siffatte garanzie procedimentali sono applicabili a tutti i Dirigenti «a prescindere dalla specifica posizione da loro ricoperta nell’organizzazione dell’impresa».
Venendo, quindi, alla giusta causa, anche recentissimamente è stato precisato che «ben può fondarsi, per la particolare natura del rapporto di fiducia, su ragioni oggettivamente non coincidenti con l’impossibilità di continuazione del rapporto, ma semplicemente idonee a turbare il rapporto fiduciario con il Datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attributi al Dirigente, purché apprezzabili sul piano del diritto, senza necessità di un’analitica verifica di specifiche condizioni, per la sufficienza di valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del recesso».
Quanto, invece, al significato di “giustificatezza” (che, ricordiamo, è di derivazione strettamente pattizia) è ormai pacifico che non coincide affatto con il concetto di giustificato motivo previsto dall’art. 3 della L. 604/66 (che attiene, invece, a ragioni oggettive o soggettive ben individuabili), bensì con qualsiasi decisione datoriale coerente e sorretta da motivi apprezzabili sul piano del diritto. Ciò significa che condotte del Dirigente – che per gli altri Lavoratori subordinati non andrebbero a integrare giusta causa o giustificato motivo di licenziamento – ben potrebbero rientrare nella nozione di giustificatezza e portare al recesso datoriale.


La Corte Suprema, sul punto, ha avuto modo di sottolineare che la giustificatezza «può fondarsi sia su ragioni soggettive ascrivibili al Dirigente, sia su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale», poiché il principio di correttezza e buona fede – che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento – deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione. In particolare, da ultimo, la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che: «la disciplina limitativa del potere di licenziamento, di cui alla l. n. 604 del 1966 e st.lav., non è applicabile, ai sensi dell'art. 10 della l. n. 604 del 1966, ai Dirigenti convenzionali; ne consegue che, ai fini dell'eventuale riconoscimento dell'indennità supplementare prevista per la categoria dirigenziale, occorre far riferimento alla nozione contrattuale di giustificatezza della risoluzione, che si discosta, sia sul piano soggettivo che oggettivo, da quella di giustificato motivo, trovando la sua ragion d'essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il Dirigente al Datore di lavoro in virtù delle mansioni affidate, dall'altro, nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al Dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell’azienda».

Oltre alle ipotesi di licenziamento individuale sin qui esaminate, occorre ricordate che - a seguito dell’entrata in vigore della L. 161/2014 e, particolare, dell’art. 16 - il Dirigente può anche essere coinvolto in procedure di licenziamento collettivo secondo le disposizioni di cui alla L. 223/1991.Il Legislatore, infatti, ha esteso ai Dirigenti la procedura di informazione e consultazione sindacale: in particolare, la comunicazione di avvio di questa procedura deve essere trasmessa anche alle associazioni di categoria dei Dirigenti che avranno diritto di partecipare alle trattative negoziali, seppur in «appositi incontri».Inoltre, trovano applicazione anche nei confronti dei Dirigenti da licenziare i criteri di scelta di legge o pattizi previsti dall’art. 5 della L. 223/1991.


Il licenziamento e le sue conseguenze
 


Ma veniamo, ora, alle conseguenze del licenziamento. Come si è detto, la prima disciplina che trova applicazione è quella codicistica prevista dagli artt. 2118 e 2119 del Codice Civile. Nella prima ipotesi, quindi, il Dirigente licenziato avrà diritto al lavorare per il periodo di preavviso o a percepire la relativa indennità sostitutiva nella misura prevista dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro. Laddove ricorra una giusta causa di recesso, invece, il Dirigente potrà essere licenziato senza preavviso.
Quanto, poi, al licenziamento irrogato in assenza di giustificatezza, i contratti collettivi dispongono che, nell’ambito di un procedura arbitrale, venga riconosciuta al Dirigente una indennità supplementare espressamente determinata tra una misura minima (di norma uguale a quella del preavviso) e massima.

Alcuni contratti collettivi, inoltre, prevedono che la misura di tale indennità possa aumentare in relazione all’età del Dirigente e/o all’anzianità di servizio. Valga sottolineare che – a seguito della riforma introdotta dal D.P.R. 917/1986 – l’indennità in parola è soggetta a tassazione separata (art. 17). In particolare, la Corte Suprema ha ritenuto che «per escludere l’assoggettabilità ad irpef di un’erogazione economica al prestatore di lavoro da parte di un Datore di lavoro – i cui rapporti di credito e debito trovano normalmente la loro causa diretta nel rapporto di subordinazione o nella risoluzione di questo – è necessario accertare che l’erogazione stessa non trovi la sua causa (ovverosia la fonte della sua obbligatorietà) nel rapporto di lavoro e, se ciò non viene positivamente escluso, che l’erogazione stessa, in base all’interpretazione della concreta volontà manifestata dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà né in redditi sostituiti, né nel risarcimento dei danni consistenti nella perdita di redditi futuri ma, al contrario, nella volontà di risarcire l’illegittima perdita di prestigio e chances professionali per il dipendente o, addirittura, un danno biologico».

Laddove, infine, il licenziamento dovesse essere affetto da nullità per i motivi che sono stati esposti, il Dirigente avrà diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro (o, in alternativa, a sua scelta, all’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità), al pagamento di un risarcimento del danno pari alle retribuzioni perse tra il momento del recesso e la reintegrazione (e, in ogni caso, non inferiore a cinque mensilità), «dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative», oltre al pagamento della contribuzione per lo stesso periodo.

Conclusioni 

 

Le caratteristiche descritte e la particolare delicatezza che spesso connota il rapporto di lavoro dei Dirigenti suggeriscono che il Lavoratore interessato da un recesso valuti attentamente e con la dovuta assistenza, magari già nel corso di un eventuale procedimento disciplinare, le motivazioni addotte, per poter affrontare il recesso con maggiore consapevolezza. Se è vero, infatti, che esistono delle “linee guida” come quelle che abbiamo qui ricordato, è vero altresì che ogni situazione presenta peculiarità che, spesso, possono aiutare a prevenire o dirimere eventuali controversie per poi pervenire a un accordo conciliativo satisfattivo per entrambe le parti.

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