Falsi valutativi una sentenza che rischia di essere storica
La rimodulazione del falso in bilancio si appresta a giungere a una definitiva conclusione circa la rilevanza penale delle falsità valutative con la rimessione della questione avanti le Sezioni Unite della Suprema Corte. Sin dagli albori dell’entrata in vigore della nuova formulazione, l’obliterazione dell’inciso “ancorché oggetto di valutazioni” ha suscitato opinioni dottrinali e giurisprudenziali opposte circa l’effetto abrogativo che conseguirebbe a tale elisione.
Da una parte, infatti, due ormai note sentenze (nn. 33774/2015 e 6916/2016) intraprendono una ricerca dell’autentica voluntas legislatoris nel dato letterale e testuale della nuova disposizione, conferendo all’eliminazione testuale dell’inciso concernente i falsi valutativi ed al ripristino nel progetto di legge del termine “fatti materiali” rispetto all’originario “informazioni” (quest’ultimo comprensivo del falso valutativo) la chiara intenzione di sottrarre dalla materia penale le valutazioni oggetto di comunicazioni sociali.
In netto contrasto ad argomentazioni certamente solide come quelle degli arresti menzionati, la c.d. “sentenza Giovagnoli” (n. 890/2015) oltre a introdurre considerazioni logico-sistematiche legate anche ad un’interpretazione lessicale proveniente dalla legislazione comunitaria, sostiene che l’accezione “ancorché oggetto di valutazioni” avrebbe una funzione non additiva, bensì meramente esplicativa del concetto di “fatti materiali”, concludendo per una tesi estensiva di tale locuzione che comprenderebbe quindi anche il falso valutativo.
Indipendentemente dalla conclusione interpretativa cui approderanno le Sezioni Unite, l’aspetto dirompente della sentenza Giovagnoli, è singolarmente un altro. Sotto la superficie di un confronto sulla definizione della nozione di falso valutativo, si cela una questione che incide sull’essenza stessa del principio di legalità in materia penale. Pur ribadendo la primaria importanza di una interpretazione condotta partendo dal “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore” (art. 12 preleggi), la sentenza Giovagnoli opta per una concezione più “sostanziale” che “formale” di legalità, affermando che l’interpretazione deve, primariamente, ricorrere a una volontà oggettiva della norma, confrontata al dato attuale e pertanto disancorata alle “contingenti intenzioni del legislatore di turno”, suggerendo quindi una sorta di esegesi normativa e non anche legislativa.
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